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Trento, 9 dicembre 2012
A 50 ANNI DAL CONCILIO VATICANO II
UNA SVOLTA NELLA STORIA DELLA CHIESA

di Marco Boato

«Chi ha paura del Vaticano II?», era questo il titolo di un volume collettaneo, a cura di Alberto Melloni e Giuseppe Ruggieri (Carocci, Roma, 2009), che a pochi anni dal cinquantenario dell’inaugurazione del Concilio ecumenico affrontava una serie di questioni riguardanti la portata storica, teologica ed ecclesiale del Vaticano II. Questi problemi si sono tutti riproposti in questo 2012, appunto a 50 anni dall’apertura, l’11 ottobre 1962, del Concilio da parte di papa Giovanni XXIII. Papa Roncalli il Concilio l’aveva voluto e annunziato fin dai primissimi mesi del suo pontificato (1958-1963), dapprima in colloqui confidenziali col suo segretario particolare Loris Capovilla e col suo segretario di Stato Domenico Tardini, e poi, fin dal 25 gennaio 1959, a soli tre mesi dall’inizio del suo servizio, annunciando la sua decisione ai cardinali (attoniti) riuniti a San Paolo fuori le mura.

Un uomo che aveva scelto per il suo stemma il motto «oboedientia et pax» e che aveva avuto nella sua formazione giovanile un forte impatto sia con la patristica che con la storia ecclesiastica, una volta divenuto papa, di fronte agli immani problemi della Chiesa in rapporto alla società contemporanea che gli si erano profilati fin dai primi giorni del pontificato, aveva scelto la strada maestra di convocare tutti i vescovi del mondo (furono oltre duemila i partecipanti) a riunirsi in Concilio ecumenico per affrontare collegialmente il necessario “aggiornamento” della Chiesa. Il discorso inaugurale dell’11 ottobre 1962, scritto per intero di suo pugno, conteneva già integralmente non certo l’esito dei lavori conciliari, ma l’impronta “pastorale” che egli intendeva imprimere all’assise ecumenica.

A lui bastò riuscire ad aprire il Concilio e a condurne in porto, nonostante le molte difficoltà, la prima sessione, che si concluse l’8 dicembre 1962. Nessun documento venne approvato in quella prima fase, ma – dopo la sua morte, il 3 giugno 1963, preceduta nell’aprile dalla straordinaria enciclica «Pacem in terris» – e dopo l’elezione del nuovo papa, Paolo VI, il Concilio riprese i suoi lavori con le successive sessioni, per concludersi definitivamente l’8 dicembre 1965.

Su tutta la fase seguita al Concilio, sia in Italia che a Trento, un giovane studioso trentino ha pubblicato un’ottima ricerca storica e documentaria sul cosiddetto “dissenso cattolico”, sia in relazione al Vaticano II e alla sua difficile e contrastata fase di attuazione, sia in relazione al movimento del ’68 e agli intrecci con le diffuse forme di “contestazione ecclesiale”: Alessandro Chini, «Il dissenso cattolico. In Italia e a Trento» (Edizioni U.C.T., Trento, 2010).

A seguito di un discorso dell’attuale papa, Benedetto XVI, alla Curia romana il 22 dicembre 2005, nella Chiesa (e anche tra gli storici) è emerso negli ultimi anni un dibattito molto forte tra la cosiddetta “ermeneutica della discontinuità” e la cosiddetta “ermeneutica della continuità” nell’interpretazione del Vaticano II rispetto alla storia e alla tradizione della Chiesa. Lo storico Alberto Melloni, riguardo a questa disputa, anche recentemente ha ribadito: «La questione dal punto di vista storico e storiografico non solo è antica, ma addirittura banale, nel senso che è ovvio che in ogni processo storico esistono dimensioni di continuità e istanze di discontinuità. Il problema è dove si collocano le une e le altre». Ma ha anche aggiunto: «Quello che è accaduto al Vaticano II è stato esattamente questo: emerse chiaramente la percezione che si era entrati in un processo riformatore, che riguardava lo statuto della tradizione, che ampliava una tradizione che per quasi due secoli si era pensata soprattutto come un baluardo inerte contro la modernità o come un baluardo antiprotestante, che riabbracciasse quella tradizione in tutta la sua complessità, in tutta la sua grandezza e in tutta la sua varietà». E inoltre: «Questa esigenza che il cattolicesimo esprimeva in quella sede lo portava a stabilire un rapporto nuovo con le altre Chiese, con l’ebraismo e con le altre religioni e un rapporto nuovo anche semplicemente con la storia». E infine: «La tesi del padre Chenu, espressa nei mesi precedenti il Vaticano II, che con il Concilio finiva l’era costantiniana perché la Parola era udita dai poveri, coglieva nella storia della Chiesa un’opportunità singolare, cioè l’opportunità di accrescere la fedeltà al Vangelo».

Dialogando con Melloni, lo storico della Chiesa Giovanni Miccoli ha voluto «ritornare su alcuni fatti avvenuti al Concilio, che mi pare siano altamente espressivi dell’orientamento che vi è emerso», individuandone in particolare tre:

1.   «In primo luogo, il rigetto pressoché completo degli schemi preparatori, che erano frutto della sostanziale influenza curiale, o comunque della teologia romana, sui lavori della fase preparatoria del Concilio».

2.   «In secondo luogo, l’emergere di una serie di temi straordinariamente qualificanti e assolutamente non scontati: la collegialità, l’ecumenismo da impostare in termini nuovi, la questione della libertà religiosa, l’atteggiamento verso gli ebrei e l’ebraismo, il dialogo con le altre religioni, l’apertura al mondo».

3.   «Il terzo punto riguarda i caratteri radicali assunti fin dall’inizio dalla durissima opposizione della minoranza conciliare, che dà la misura della portata delle prospettive che si stavano aprendo nel Concilio».

Concludendo questa sua riflessione storica, Miccoli ha aggiunto: «Non è un caso che in questa serie di temi affrontati dal Concilio vi sia implicita un’idea di svolta, di cambiamento: in questo senso, l’espressione ‘nuova Pentecoste’, che papa Giovanni utilizzò più volte in riferimento al Concilio, non è un termine banale, retorico, ma è ricco di significato». E ha concluso: «Mi sembra quindi che siano i fatti stessi avvenuti durante il Concilio a suggerire con grande evidenza la prospettiva radicalmente nuova, che era presente nella mente della maggioranza dei padri, una prospettiva che, sia pur parzialmente, fu portata a compimento» («Dialogo sull’eredità del Concilio» in «Micromega», n.7/2012, pp. 74-76).

Riflessioni analoghe si possono ritrovare in modo più sistematico anche nel volume «Ritrovare il Concilio» del teologo Giuseppe Ruggieri (Einaudi , Torino, 2012), che viene così presentato: «Ruggieri evidenzia i nodi centrali che hanno fatto del Concilio un evento singolare, che ha dato inizio a una nuova stagione della Chiesa: l’atteggiamento davanti alla Parola testimoniata nelle Scritture ebraico-cristiane, dopo la controversia antiprotestante; la considerazione della storia moderna non più ridotta a una congiura dei malvagi contro l’autorità della Chiesa; la concezione della Chiesa stessa nella sua liturgia, nel suo governo, nel rapporto con le Chiese non cattoliche; la considerazione degli ‘altri’: gli ebrei, le grandi religioni dell’umanità, le società fondate sul riconoscimento dei diritti umani, primo fra tutti la libertà religiosa».

E infine molti storici e teologi hanno dato vita ad una riflessione e ricostruzione a più voci sulla portata innovativa dell’assise ecumenica in un numero monografico della rivista «Concilium» (n.3/2012), sotto il titolo «A cinquant’anni dagli inizi del Vaticano II (1962-2012)», il quale si apre con un editoriale che denuncia apertamente il «manifestarsi di una vulgata riduzionista sul Vaticano II in nome della continuità del Concilio con la ‘tradizione’». Evidentemente, pur essendo passato ormai mezzo secolo, c’è ancora «chi ha paura del Vaticano II» e preferirebbe rifugiarsi in una comoda “afasia”, come ha denunciato il teologo tedesco Peter Hünermann.

 

  Marco Boato

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